Kasparhauser
2014
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Lichtung. Luci
A cura di Giacomo Conserva
Il concetto di concetto: suggestioni sul senso del dire
di Fabio Ciriachi
28 dicembre 2014
Antefatto
La mail di Giacomo Conserva circa il prossimo numero di Kasparhauser ricevuta il 7/11/2014 alle 13,38 così esordisce: “ Il tutto dovrebbe avere a che fare con il senso dell’arte. della bellezza etc etc”.
Sarà per quel senso in grassetto, percepito come un perentorio ordine visivo, ma non riesco a dare peso ai complementi di specificazione che lo seguono, e la mia ipotesi di lavoro è attratta in modo irresistibile ed esclusivo da quella sola potente parola-cardine.
Di “senso” il vocabolario Treccani on line dà sei definizioni, suddivise a loro volta in diciassette specifiche dove sono citati Petrarca, Dante, Foscolo, Tasso, Parini, Alfieri, Leopardi, Calvino; un “testo” lungo e circostanziato che, quand’anche non aggiungesse nulla di nuovo a quanto già si crede di conoscere in materia, suggerisco di leggere per intero così da favorire, a mo’ di rito condiviso, una degustazione il più possibile neutra dei materiali che seguono: talmente frammentari ed eterogenei nell’intento di favorire, per suggestione, possibili discorsi altri da prestarsi alla sconvenienza di letture acide o basiche.
Sènso s. m. [lat. sēnsus -us, der. di sentire «percepire», part. pass. sensus].
1.
a. La facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni (affine quindi a sensibilità): gli animali sono dotati di senso; ahi troppo tardi, E nella sera dell’umane cose, Acquista oggi chi nasce il moto e il s. (Leopardi); in questo sign., è raro il plur.: i miserandi avanzi che Natura Con veci eterne a sensi altri destina (Foscolo), ad altre forme di sensibilità.
b. Più comunem., ciascuna delle distinte funzioni per cui l’organismo vivente raccoglie gli stimoli provenienti dal mondo esterno e dai suoi stessi organi e, previa opportuna trasformazione, li trasmette al sistema nervoso centrale, informandone o no la coscienza. Nel linguaggio com., i cinque s., la vista, l’udito, il gusto, il tatto, l’odorato, che corrispondono, meno il tatto e con l’aggiunta della funzione vestibolare, ai s. specifici della fisiologia, così denominati per il particolare grado di differenziazione del substrato anatomico e delle funzioni, che ne giustifica la contrapposizione ai s. somatici, i quali comprendono le varie forme della sensibilità generale e i cui recettori sono sparsi per l’intero organismo. Organi di senso (dove senso ha il sign. più ampio definito prima) sono gli strumenti periferici della funzione sensitiva (organi di s. generale) o sensoriale (organi di s. specifico, cioè occhio, orecchio, vestibolo, mucosa olfattiva e mucosa gustativa); usualmente, per organi di senso, o assol. sensi, s’intendono per lo più questi ultimi: percepire, conoscere, apprendere attraverso i s., per mezzo dei s.; le cose che cadono sotto i s., le cose concrete, visibili e tangibili; un errore dei s., l’illusione dei s. (che più propriam. sono errori o illusioni della mente nel giudicare ciò che i sensi percepiscono, trasmettono). Trasposizione dei s., presunto fenomeno parapsicologico molto raro consistente in un apparente spostamento di facoltà percettive (per es., «vedere» con la nuca) in soggetti isterici gravi, sonnambuli, ecc. In passato, è stato denominato sesto s. un ipotetico senso nascosto, globalmente capace di percepire per vie extranormali, e spec. funzionante in sensitivi e chiaroveggenti; l’espressione è rimasta nell’uso com. con valore generico e approssimativo, per indicare capacità di previsione o d’intuizione particolarmente sviluppate.
c. Sempre al plur., l’esercizio della facoltà di sentire, l’attività degli organi di senso: avere, perdere l’uso dei s.; quindi, la coscienza di sé stesso e dei proprî atti, in locuzioni come perdere, riacquistare i s., meno com. tornare in sensi, e sim., che indicano la perdita o il riacquisto della coscienza in seguito a svenimento.
d. Come simbolo della vita fisica: A questa tanto picciola vigilia D’i nostri s. ch’è del rimanente (Dante), a questo breve spazio di vita che ancora ci rimane; spec. in contrapp. alla vita spirituale: la maggior parte de li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione,a guisa di pargoli (Dante). In partic., i s., gli appetiti fisici, soprattutto la lussuria e la gola: Regnano i s., e la ragion è morta (Petrarca); con più diretto riferimento alla sensualità: i piaceri dei s. o del s.; i peccati del s.; mortificare, castigare i s., e sim.
2. estens.
a. Coscienza, consapevolezza in genere: Ma io, forse già polvere Che senso altro non serba Fuor che di te... (Parini); o la percezione e coscienza di fatti interni: s. intimo (o interno), espressione della filosofia e della psicologia, usata per designare l’avvertimento di sé e dei proprî stati interiori, in contrapp. Al s. esterno, come percezione delle realtà sensibili collocate al di fuori della propria persona fisica; per il s. fondamentale (sinon. di sentimento fondamentale), v. sentimento, n. 2 e.
b. L’avvertimento di sensazioni interne, di natura fisica o, talora, psichica, spec. se non ben definite: avvertire un s. di fame; provare un s. di benessere, di malessere, di stanchezza, di pesantezza alla testa, di languore allo stomaco, d’amaro in bocca, ecc.
3.
a. In altri casi, indica più espressamente uno stato d’animo, una sensazione, un atteggiamento psichico: sentiva dentro di sé come un s. di vuoto; la sua partenza ha lasciato in tutti noi un s. di rimpianto; provare un s. di tristezza, d’amarezza, di sconforto, ecc. Molto com. nell’uso fam. l’espressione fare senso, di cosa che produce una impressione forte e non gradevole (simile a disgusto o ripugnanza) o un turbamento psichico in genere:vedergli perdere tutto quel sangue mi faceva senso; spettacoli di miseria che fanno senso.
b. Spesso, sinon. Di sentimento (ma con qualcosa di più indefinito): quando mi fia... ogni altro senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano (Leopardi); specificando il tipo e il contenuto del sentimento: alle sue parole, provai un s. di vergogna; tacque per un s. di dignità, per un s. di pudore. Anche di sentimenti rivolti ad altri: lo guardava con un s. di pietà; provava per lui un s. di gratitudine (o di rancore, d’odio, d’invidia, d’avversione); celeste è questa Corrispondenza d’amorosi sensi, Celeste dote è degli umani (Foscolo). In frasi d’ossequio, spec. nella chiusa delle lettere, anche l’espressione del sentimento (sempre al plur.): gradisca i s. della mia devozione; con i s. della mia più profonda stima, ecc. In altri casi, al plur. (letter.), di sentimenti elevati: uomo, donna di alti s.; Spirerò nobil sensi a’ rozzi petti (T. Tasso); Liberi s. a rio servaggio in seno Lieve a trovar non è (Alfieri).
c. La capacità di sentire, in quanto presuppone un discernimento tra il reale e l’irreale, tra il bene e il male, tra il bello e il brutto, tra il conveniente e lo sconveniente, ecc.: avere molto sviluppato il s. morale; essere privo di s. della giustizia; essere scarso di s. critico; essere assolutamente privo di s. umoristico, del s. del ridicolo; possedere, coltivare, offendere il s. del bello, il s. estetico; avere, non avere il s. della decenza, della misura, dell’equilibrio (spirituale); essere privo di s. pratico, della capacità di discernere l’opportunità nei fatti della vita pratica. Dottrina del s. morale, teoria filosofica svolta dai moralisti inglesi del Settecento, secondo cui la coscienza umana possiede una capacità innata, quasi istintiva e infallibile, di distinguere il bene dal male e di provare piacere per le azioni buone altrui e proprie, senza alcun riferimento a vantaggi ulteriori.
d. Capacità discretiva e insieme intuizione indica anche nelle espressioni avere, perdere il s. dell’orientamento; significa invece capacità naturale d’intendere le cose, di apprezzarle nel loro giusto valore, di giudicare rettamente nelle due locuz. buon s. (v. buonsenso) e s. comune (v. la voce).
4.
Il contenuto e il valore significativo di un elemento linguistico; è sostanzialmente sinon. di significato anche se alcune scuole linguistiche distinguono il senso, più generale e comprensivo e quindi più mutevole nei diversi contesti, dal significato, più specifico e costante, e altre scuole usano i due termini nel rapporto opposto. In partic.:
a. Di singole parole o locuzioni: spiegare, intendere, discutere il s. d’un vocabolo; s. proprio, figurato, traslato, metaforico; in questo passo il termine è usato in s. estensivo; in s. ampio, nel pieno s. della parola; usare, interpretare una parola nel s. deteriore.
b. Di frasi, costrutti, discorsi, il concetto in essi racchiuso, ciò che la frase o altro vuol significare in quel particolare contesto: maestro, il s. lor m’è duro (Dante, delle parole scritte sopra la porta dell’inferno); parole che hanno un s. riposto, recondito, profondo, piene d’un s. misterioso; il s. del verso è chiaro, oscuro, ambiguo; capire, intendere, afferrare, cogliere il s. della frase; interpretare in altro s., dare un altro s. alle parole di qualcuno; esporre, riassumere in breve il s. d’un discorso. Anche riferito a interi libri (soprattutto nell’esegesi della Bibbia): interpretare il testo biblico secondo i varî s., e, specificando, nel s. letterale, tipico, anagogico, allegorico, morale, ecc. (v. anche ermeneutica).
c. Locuzioni: leggere a senso, facendo intendere, con le necessarie pause e col tono della voce, il senso di ciò che si legge; sapere, ripetere a senso qualcosa, conoscerne o ripeterne il contenuto con parole proprie, non testualmente e non a memoria; tradurre a senso, preoccupandosi di rendere il significato generale, anziché tradurre alla lettera parola per parola. Costruzione a senso (lat. constructio ad sensum), in sintassi, l’incongruenza grammaticale dell’accordo di un sostantivo singolare con un verbo plurale, o viceversa (questo tipo di sintagma, detto in greco κατὰ σύνεσιν o κατὰ σύνθεσιν, è anche indicato con l’espressione sinesi del numero). Doppio senso, duplice interpretazione a cui una parola o una frase si presta, e la frase stessa che si presta a questa duplice interpretazione (spec. quando uno dei due significati abbia carattere malizioso o osceno): storiella a doppio s.; conversazione piena di doppî sensi.
d. Contenuto logico, contenuto d’idee sostanzialmente valido (in questa accezione si usa solo al sing.): cerca di dire cose che abbiano senso (o che abbiano un s. comune, con lo stesso sign.); per lo più in frasi negative: parole, frasi, discorsi senza s., privi di s., vuoti di senso; non c’è senso in quello che dici. Con sign. più ampio, anche riferito ad azioni e comportamenti: ciò che fai non ha senso, non ha giustificazione, è illogico, inopportuno, inutile, assurdo; e similmente: un mio intervento ora non avrebbe senso; una protesta da parte vostra sarebbe senza senso. V. anche nonsenso. Riferito a grandi avvenimenti e processi, la percezione della loro importanza, della loro portata, o della loro particolare natura:avere, intendere il s. della storia, degli eventi (o di un evento);il s. della vanità della storia umana che l’aveva colto poco prima in cortile, lo riprese (I. Calvino).
5.
Usi estens. e fig., che si sviluppano dalla prec. accezione:
a. Ai sensi, a senso, conforme a, secondo quanto è disposto da, in frasi del linguaggio forense e burocr.: ai sensi dell’art. 97 della legge...; a senso di legge, a senso o ai sensi del regolamento, ecc.
b. In un certo s., sotto un certo aspetto, per qualche rispetto: in un certo s. hai ragione tu; questo è vero, ma soltanto in un certo senso.
c. Equivale più o meno a modo in alcune frasi tipiche, come:gli puoi scrivere in questo s.; m’ha risposto in questo s.; soprattutto quando ci sia un’alternativa, una doppia possibilità: rispondere in s. affermativo, in s. negativo, affermativamente o negativamente; io consiglierei di fare in questo s. piuttosto che nell’altro; comunque vadano le cose, nell’un s. o nell’altro, per noi va sempre male; la questione si è risolta nel s. migliore, nel s. più favorevole, nel s. più vantaggioso per noi.
6.
Orientazione, direzione secondo la quale si effettua un movimento; più precisam., in matematica, su una retta o un arco di curva AB, distinzione tra due modi di percorso, uno da A a B, l’altro da B ad A (sinon. di verso): io ero diretto nel s. opposto al suo; s (o verso) di rotazione (s. orario, s. antiorario); s. positivo, s. negativo;s. di percorrenza di una curva; nel s. della lunghezza, della larghezza, della diagonale; lo esaminava attentamente girandolo e rigirandolo in tutti i sensi. In usi estens. o fig.: il s. del pelo, della stoffa (meglioil verso); andare nel s. del progresso. Nella circolazione stradale (per calco del fr. sens), il verso che può o non può essere seguito dai veicoli, nelle locuz. s. unico, dove i veicoli possono circolare soltanto in un verso e non nel verso opposto; s. vietato, nel quale i veicoli non possono immettersi; s. obbligatorio, quello indicato come il solo nel quale un veicolo possa proseguire la sua marcia, escludendo al suo conducente ogni altra possibilità di scelta (nelle segnalazioni stradali il s. vietato è indicato da un cartello circolare rosso, attraversato orizzontalmente da una striscia bianca; il s. obbligatorio è indicato da un cartello pure circolare di colore azzurro, con una freccia bianca rivolta verso l’alto, o a destra o a sinistra a seconda della direzione che si prescrive debba essere tenuta; si usano anche frecce a due direzioni, come pure cartelli rettangolari con freccia bianca in campo azzurro, sulla quale è la scritta indicativa).
MATERIALI
Primo Due mie poesie degli anni Ottanta, inedite in volume e uscite sul numero 6 di “Night Italia” nel 2011, così recitano:
Confusione 1
(a Marcel Proust)
Un giorno ho puntato
la macchina fotografica
sul mio passato
ho messo a fuoco all’infinito
e ho scattato. Era una ricerca
del tempo perduto e così
per non perdere altro tempo
ho subito portato
il rullino a sviluppare.
Ma è venuto tutto nero.
Sembra che il pasticcio sia a monte.
La fonte di tutto sarebbe
una mia apertura alla vita
finita poi male. Aprendomi, infatti,
io così sensibile avevo preso luce;
da allora il mio passato
è chimicamente alterato
contiene ma non mostra;
le sue foto, tutte nere,
sono il tempo non ritrovato
il buio presente.
Confusione 2
Dice un proverbio: “Il gioco è bello
quando dura poco”. Come crederci
se sto giusto vivendo il contrario?
Un lungo gioco totale
con una persona che non voglio
nominare. Grazie a questa esperienza
posso invece affermare
“se credi ai proverbi
non sai cosa perdi”. Anche se
non permetterò mai che la frase
“se credi ai proverbi non sai cosa perdi”
diventi anch’essa un proverbio
perché ciò che è vero una volta
non è detto che sia vero sempre
anche se, proprio per questo,
una volta può essere vero che
“ciò che è vero una volta non è detto
che sia vero sempre” e altre volte no
quindi altre volte
ciò che è vero una volta è vero anche sempre.
Ne consegue che a certi proverbi
è il caso di credere e ad altri no.
E nessuno può dire
a quali, come e perché, nessuno per fortuna
ne sa niente.
Secondo In una poesia tratta dalla mia terza raccolta, Pastorizia (Empirìa, 2011), si legge quanto segue:
Empirismo
Un ferro tondo tutto quanto torto
non dà forse un’idea di debolezza
smentita solo quando nel toccarlo
se ne constata tutta la durezza?
Era così contorto quel tondino
che dava l’impressione, convincente,
che fosse molto facile piegarlo
e la fatica non costasse niente.
Ma prova a torcerlo se ti riesce
soltanto con le mani come sembra
possibile vedendo quanto è torto.
Col ferro l’apparenza conta niente.
Con cosa invece l’apparenza regge?
Con tutto quanto non si può toccare,
col pensiero è più facile ingannare
il tatto invece ha un senso e ci protegge.
Terzo L’editoriale di Le Monde del 9 agosto 2014, dal titolo “Khmer rouges, un verdict frustrant”, così si conclude : “…Enfin cette tragédie est aussi liée au contexte international de l’époque. Les Etats-Unis, en procédant à des bombardements aussi secrets qu’aveugles sur le Cambodge au temps de la guerre du Vietnam, ont sans nul doute contribué à la radicalisation de la guérilla «rouge». Puis, en raison de leur condamnation de l’invasion du Cambodge par le Vietnam, alors allié de l’URSS, et des impératifs de la guerre froide, les pays occidentaux et d’autres continuèrent, pendant des années après 1979, à reconnaitre l’opposition en exil, dont les Khmers rouges. Fermant les yeux sur leurs crimes passés, l’ONU continua à reconnaitre ses dirigeants, qui occupèrent les sièges du Cambodge aux Nations unies. En ce sens, nombreux sont les acteurs qui ne se sont pas retrouvés assis, à Phnom Penh, sur les bancs des accusés”.
Quarto Il 18 agosto 2014, col titolo “Segnali”, nel mio diario bretone annoto quanto segue : “I radi accessi a internet e alla stampa mi consentono comunque di registrare due belle notizie: i diecimila di Tel Aviv che manifestano contro la politica di aggressione militare del governo Nethaniau a Gaza; e l’olandese che restituisce la medaglia di “giusto” ricevuta per aver salvato un bambino ebreo durante l’ultima guerra.
Sono questi i segnali che servono per andare, credibilmente, verso una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese, perché marcano una decisa presa di distanza dai fautori della violenza. Non credo occorrano sottili alchimie politiche per convenire sulla impraticabilità della soluzione armata; vuoi per il divario fra le forze in campo, vuoi perché alla mia coscienza ma anche a quella condivisa, immagino repelle una soluzione che passi attraverso lo sterminio di uno dei due contendenti.
È certo che, finora, questa politica di sterminio sia stata condotta in particolare da Israele; e poco contano le obiezioni dei filoisraeliani secondo i quali se Hamas avesse avuto a disposizione armi più raffinate si sarebbe macchiata di crimini identici se non peggiori. Nei fatti, le forze armate israeliane massacrano i civili palestinesi, e non il contrario. Nei fatti, coloni israeliani occupano illegalmente territori da cui i palestinesi sono scacciati. Nei fatti la striscia di Gaza è una grande prigione a cielo aperto verso la quale è chiara l’intenzione israeliana di strangolarne in tutti i modi economia e vivibilità al fine, evidente, di provocare l’esodo in massa della sua popolazione così da avere spazio per nuove colonie.
È altrettanto certo, mi sembra, che nel perpetrare questa sua politica di massacri, Israele abbia un grande alleato in Hamas, che gli fornisce alibi facilmente spendibili nelle varie informazioni acquiescenti cui non serve altro che qualche maldestro razzo palestinese per continuare a mostrare Israele nei panni di vittima costretta a difendersi; con buona pace di chi ha una coscienza che si può mettere a tacere con poco.
Questa breve nota non vuole, né potrebbe, essere esaustiva di nulla, in merito a un problema che si trascina dalla nascita stessa dello stato di Israele e che fa i conti, in particolare ora, con le catastrofiche politiche occidentali in ambito mediorientale. È immune, quindi, da ogni rilievo che miri a dimostrare ragione o torto di questi o di quelli in base a precise citazioni o a puntuali excursus storici con tanto di nomi e date a riprova di, a dimostrazione che, eccetera. Qualunque sia la genesi di quanto accade oggi, i fatti, nella loro cruda sostanza, sono chiari e visibili. Da una parte c’è un “gigante” a livello economico, tecnologico, diplomatico, militare (atomica compresa). Dall’altra una popolazione civile che, fosse anche per le cattive politiche dei suoi governanti, subisce da decenni abusi, privazioni, massacri ricorrenti, ghettizzazioni: in una parola, una lenta condanna all’estinzione.
La comunità internazionale non può non farsi carico della cosa e sforzarsi, nei modi che saranno ritenuti migliori, di risolverla fiancheggiando, con autorevolezza, le parti in causa nel corso di trattative alle quali nessuno potrà sottrarsi fino al raggiungimento di una soluzione condivisa. Certo, non sarà facile fermare le violenze; il rapimento e l’uccisione dei tre giovani israeliani, che ha dato il via all’ultima carneficina, lo sta a dimostrare. È molto più facile appiccare il fuoco che spegnerlo. Ma è lì che dovrà misurarsi la capacità dei governi, delle diplomazie, dell’opinione pubblica, di tutti noi che abbiamo a cuore il popolo palestinese, di gestire e trattare con nervi saldi la faccenda (non che le altre vittime innocenti non meritino la nostra attenzione e cura, ma la sorte peggiore, ancora adesso, incombe soprattutto sui palestinesi). Non illudiamoci: uccideranno ancora, gli uni e gli altri, perché vi sono interessi nelle parti in gioco cui conviene il conflitto perenne. Ma se ci si dimostrerà capaci di non rispondere al sangue col sangue, anche l’omicidio strumentale si rivelerà inutile e cesserà. Isolare i guerrafondai e appoggiare in tutti i modi chi spinge nella direzione della giustizia; mantenendo questa rotta, se lo sforzo sarà continuo e ampiamente condiviso, la pace conseguirà come un fenomeno naturale.
Per aver espresso, in altre sedi, opinioni simili a quelle di questa nota sono stato tacciato, da alcuni compagni, di “equidistante”, di “filoisraeliano”, di stare “dall’altra parte della barricata”; e, da filoisraeliani (ebrei e non), di “antisemitismo”. Entrambi questi estremi, che si confutano a vicenda lasciando sospeso e improbabile un giudizio che voglia essere fondatamente univoco, la dicono lunga sulle posizioni non pacifiche né concilianti degli accusatori: faccio distinguo poco ortodossi, e dai compagni vengo sospettato di trescare con la parte avversa, mentre per i filoisraeliani continuo a essere antisemita e basta (anche l’ONU delle risoluzione contro i nuovi insediamenti lo sarebbe, a sentire i più esagitati tra loro); e poiché ciascun fautore delle due parti coinvolte sente di avere sacrosanti motivi per essere nel giusto, vive come sconfitta qualunque traccia di cedimento, fosse anche espressa in termini di analisi un po’ meno scontata di quella che gravita nell’ambito della soluzione bellica.
Come si fa a voler aiutare la pace e a non essere in grado di vedere che senza uno sforzo per uscire dalla logica della contrapposizione frontale si torna al drammatico stallo di ora? Se non proveremo, tutti, a rinunciare a una quota tollerabile delle nostre più legittime ragioni sarà difficile pervenire a una soluzione praticabile e duratura. Certo, per riuscire davvero in questa impresa sarebbe fondamentale un’analisi spietata e pubblica che individui, con sempre maggiore precisione (quindi senza la scorciatoia della propaganda) quali sono i governi e i gruppi di potere cui conviene, e perché, un conflitto perenne. Potrebbe derivarne una sorta di grande dialogo collettivo sempre più circostanziato e preciso, grazie ai nuovi contributi, che non lascerebbe spazio, decantati degli inevitabili tentativi di inquinamento, a nascondimenti, elusioni, trucchi, come una “Wikipedia della verità” costruita con l’appassionata decisione dei più di farla finita coi fabbricanti di morte.
Quinto Tra settembre e ottobre 2014, sulla mia bacheca di facebook pubblico questi due post:
“Il concetto di «orizzonte» può essere alterato da un semplice torcicollo; il concetto di «visuale», da un piccolo grano di polvere nell’occhio. Ma a correre più pericoli è il concetto di «concetto», con quella contrazione lessicale che rischia di lasciare lontano il suo trarre origine da «concepito», così adatto a ricordare, invece, quanto ogni concetto sia figlio (come noi) di una dualità che rende parziale la nostra sola partecipazione, ed errato il crederla bastevole. Andiamo a cercare, dunque, per ogni concetto che facciamo nostro, l’altro che assieme a noi l'ha messo al mondo, l'interlocutore sconosciuto col quale, senza saperlo, ragioniamo”.
“Pensare filosoficamente non è andare a caccia di visioni del mondo con un armamentario sapienziale raffinato e potente, ma spogliarsi via via proprio di ogni armamentario per diventare da inoffensivi il più possibile capaci di accogliere le ricchezze dell’insolito che potrebbero non stare necessariamente nei ristretti obiettivi di un progetto (anche ambizioso) ma lì dove alla nostra intelligenza fattasi inerme e recettiva di colpo è consentito accedere. Il pensiero filosofico, quindi, non si attiverebbe con «io cerco» ma con «io mi metto in condizione di essere trovato»".
Sesto Su Repubblica on line del 7 novembre 2014 leggo la seguente notizia:
“Città del Messico Sono stati uccisi da sicari del gruppo di narcotrafficanti Guerreros Unidos i 43 studenti scomparsi lo scorso 26 settembre da Iguala, nello stato messicano di Guerrero. E i loro corpi sono stati dati alle fiamme. Il procuratore generale federale, Jesus Murillo Karam, ha reso noto che tre uomini arrestati nei giorni scorsi nell'ambito dell'inchiesta hanno confessato di essere gli esecutori della strage.
«Sono conscio dell'enorme dolore che può arrecare questa notizia», ha detto Murillo aggiungendo che i tre tutti appartenenti al gruppo narco Guerreros Unidos hanno raccontato di aver preso in consegna i ragazzi, fermati dalla polizia municipale di Iguala, e di averli portati nella vicina località di Cocula. Circa 15 sarebbero morti per asfissia prima di arrivare alla discarica dove sarebbero stati uccisi gli altri. «I detenuti hanno detto che hanno gettato i corpi nella parte bassa della discarica, dove li hanno bruciati. Hanno fatto turni di guardia per assicurarsi che il fuoco bruciasse per ore, versandoci sopra combustibile, pneumatici e altri oggetti», ha riferito il procuratore, sottolineando che alcuni studenti erano «ancora vivi quando è stato dato loro fuoco».
Le fiamme hanno bruciato tutta la notte e il calore sprigionato era tale che i sicari hanno dovuto aspettare la sera del 27 settembre per rimuovere le ceneri, spezzare i resti delle ossa e versarli in buste nere di plastica per la spazzatura, che hanno poi gettato nel vicino fiume San Juan, dove sono state ritrovate da sommozzatori della polizia. Murillo ha aggiunto che lo stato dei poveri resti degli studenti rende difficile l'identificazione e che saranno inviati a un laboratorio specializzato in Austria per analizzare le tracce di Dna.
Gli studenti, tutti sui 20 anni, erano stati arrestati da agenti corrotti e consegnati ai membri del potente cartello del narcotraffico locale. La polizia, nei giorni scorsi, aveva arrestato l'ex sindaco di Iguala, Josè Luis Abarca, e sua moglie con l'accusa di aver ordinato l'omicidio dei giovani colpevoli di aver organizzato una contestazione durante un suo comizio. Ancora latitante il responsabile della sicurezza pubblica dell'ex primo cittadino”.
Settimo Se anche tentassi un recupero in extremis di temi più direttamente relativi al “senso dell’arte e della bellezza” non riuscirei a nascondere in modo credibile il mio niente da dire in proposito. Ho vaghi ricordi di una loro “poetica” trattazione nell’ordine alfabetico dei Sillabaridi Goffredo Parise, ma non posso verificare, ché i libri sono a Roma e io, ora, vivo a Bruxelles. Né sento di rifugiarmi nella bellezza del Parc de Woluwé coi suoi laghetti di folaghe e cigni, col pieno sole di oggi, così raro qui dove Jacques Brel ha potuto scrivere versi memorabili come: “Avec un ciel si gris qu´un canal s´est pendu / Avec un ciel si gris qu´il faut lui pardonner”.
E al dunque fungono solo da appoggi per la resistenza, i pochi libri portati da Roma che sorvegliano, accanto al pc, il lavoro di scrittura: i racconti di Witold Gombrowicz, Bacacay, Mammifero italiano, di Giorgio Manganelli, il Manuale di Epitteto con la traduzione di Giacomo Leopardi, Ognuno incatenato alla sua ora, della poeta di etnia Jenish Mariella Mehr. Sulla pagina luminosa del display una storia in corso, fra le tante possibili, registra quanto segue: « Il peso che lo schiaccia, però, non riguarda in modo generico gli altri; non sottoscriverebbe mai, lui, l’enfer, cest les autres, troppo teatrale e fredda, come pena, per sentirsene rappresentato, troppo generica e connessa a tempi ormai lontani e quasi fortunati, a misurarli col dolore di adesso, no, lui sa fin troppo bene che il suo inferno in realtà sono i suoi altri, i mediocri e così a lui somiglianti altri che è riuscito a convogliare, col massimo degli sforzi, accanto all’intero corso della sua vita, e dio solo sa quanto avrebbe desiderato, invece, la presenza di qualche figura ammirevole, e grande, e luminosa, anche, a dargli lustro, una figura a lui rivolta e con lui in palese contatto e intima condivisione, che per sola virtù di somiglianza, per minima adiacenza d’ombre, fosse riuscita a farlo apparire, agli occhi del mondo, meno miserabile e fallito di quanto ormai sa di essere; e in un modo, teme, definitivo».
La finzione salva dalla realtà, sempre, ma tende a prosciugare chi la agisce senza l’uso accorto della distanza. Ridotto al minimo, mi congedo col solo memento che sono capace di opporre a questi tempi di carneficina: “seminare gentilezza.
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